La questione meridionale addosso


Ho perso il conto di quelli che ho visto fare le valigie.
Li ho guardati nascondere un po’ di coraggio nelle tasche più capienti dei loro borsoni, pronti a salire su treni che li avrebbero portati in posti lontani, dove la domenica non si mangiano le polpette, dove la parola “mesale” non significa niente, dove il caffè non sa di caffè e la pizza proprio non la sanno fare. Li ho immaginati cercare di costruirsi un angolo sicuro fatto di fotografie sulle pareti e di telefonate a tarda notte; nella migliore delle ipotesi c’è skype: la tecnologia che cerca di accorciare le distanze. Eppure, per quanto le parole si impegnino, io ho capito che i chilometri non li sanno percorrere. Partire significa rinunciare. Certo, vedere il mondo arricchisce, ma casa è sempre casa, e fa male sapere che casa è un posto che non offre occasioni e che soffoca le speranze.

Vivere dove vivo io, ad esempio, mi ha insegnato la sensazione angosciante di amare e odiare un posto contemporaneamente. Siamo in 20.000, rilegati all’estrema periferia di una Napoli un po’ bastarda, facile da voler bene ma troppo abile nel mandar via. Qui il ritornello più popolare è “se vuoi fare qualcosa di buono, devi scappare”. Non importa se tu ci stia mettendo tutto l’impegno di cui sei capace pur di fare qualcosa di buono comunque.

A un certo punto, ho iniziato a capirli quelli che hanno fatto le valigie.
Li ho invidiati un po’, ne ho sentito una mancanza a tratti lancinante, ma ho pregato ogni notte perché la vita li ricompensasse per le tante rinunce.

Io, intanto, sono in uno di quei periodi in cui ti senti la questione meridionale addosso, mentre vedi che il mondo va avanti e che tu sei incastrata in provincia, dove devi fare il doppio della fatica per vedere la metà del risultato.

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